di Francesco Seghezzi
Nei giorni in cui si discute di programmi, contratti e proposte per i prossimi mesi e anni, può essere utile riportare lo sguardo alla realtà dei fatti per analizzarli e cercare di comprenderli. Questo è tanto più urgente se parliamo di lavoro, un tema che, a dispetto di quanto si tende a dire, ha avuto un ruolo centrale nella recente campagna elettorale poiché, in un modo o nell’altro, lambisce la vita di ogni persona.
Un’analisi della situazione del mercato italiano, con una prospettiva che ci consente di rileggere gli ultimi dieci anni, ce la offre l’Istat nel suo consueto rapporto annuale sulla situazione del paese, con dati aggiornati al 2017. Dal capitolo dedicato al lavoro, ricco di dati e approfondimenti, due evoluzioni colpiscono particolarmente e vanno quindi approfondite: l’evoluzione dell’occupazione nei settori e quella nelle professioni. Infatti, se letti insieme questi dati sembrano dirci chiaramente che chi nega profondi, e forse epocali, cambiamenti nel mercato del lavoro italiano ha torto, nel migliore dei casi, o vuole consolarsi immaginando un passato che non c’è più, nel peggiore.
Meno industria, più servizi.Si ma quali?
Ma veniamo ai numeri. Il dato più macro che balza all’occhio subito è quello che mostra come tra il 2008 e il 2017 in Italia si siano persi 895mila occupati nel settore dell’industria (358mila nell’industria in senso stretto e 537mila nelle costruzioni, con un calo pari al 27,5%) e si siano guadagnati 810mila occupati in quello dei servizi, con una sostanziale stabilità (+17mila) dell’agricoltura. Fin qui quasi nulla di nuovo, l’evoluzione dei mercati del lavoro dei paesi sviluppati va in questa direzione da anni. Quasi perché, sebbene sia dal 1980 che gli occupati sono in calo nel settore dell’industria, questa diminuzione è iniziata più tardi che in altri paesi (negli USA l’inizio è stato nel 1953) ed è stata più lenta. E questo ci porta a vivere ciò che altri Stati hanno vissuto qualche decennio dopo, con l’aggravante di viverlo contestualmente a una crisi che non aveva nell’industria la sua causa iniziale.
Ma a parte questo è interessante vedere dove si sono creati posti di lavoro nei servizi. A fronte di un aumento complessivo degli occupati del 5,3%, tre sono le categorie che guidano la crescita. La prima è quella degli alberghi e della ristorazione (+25,1%), a dimostrazione di come il settore sia in forte espansione, anche per i vantaggi dell’e-commerce e della nuova ondata di interesse per il mondo food. La seconda è quella della sanità e dell’assistenza sociale (+14,1%) e la terza quella dei servizi alle famiglie, che ha visto un vero e proprio boom pari all’84,4%. Gli aumenti in queste ultime due categorie, che da sole hanno portato a 576mila occupati in più, si possono spiegare considerando i profondi cambiamenti demografici che il nostro paese sta vivendo e che l’hanno portato a essere il secondo più vecchio al mondo.
Altri settori in crescita sono poi quello dei servizi alle imprese (+7%), che ha registrato uno sviluppo soprattutto negli ultimi anni grazie ai processi di digitalizzazione e internazionalizzazione che richiedono, soprattutto alle piccole e medie imprese, un supporto strategico, e, in misura inferiore, il settore della logistica e quello dell’informazione e della comunicazione. In calo, invece, il commercio (-4,8%), probabilmente colpito prima dall’affermarsi della grande distribuzione e poi, soprattutto, dall’e-commerce, e la pubblica amministrazione, per la quale pesa il blocco delle assunzioni.
Dai settori alle professioni, il nodo produttività
Oltre alla divisione tra settori, l’Istat ci offre anche una preziosa classificazione per professioni, che aiuta a illuminare meglio lo scenario che stiamo tracciando. Nello stesso arco di tempo (2008-2017), infatti, il numero di operai e artigiani è diminuito di 1 milione di unità, pari al 16,2% in meno, trend confermato anche negli ultimi anni e che la ripresa non ha fermato. Parallelamente guadagnavano spazio le professioni esecutive nel commercio e nei servizi (+861mila), cresciute di 104mila unità nel solo arco di tempo 2016-2017.
Fin qui i numeri rispecchiano più o meno quanto era prevedibile visto l’andamento dei macro-settori economici, con un travaso di occupazioni che potremmo definire di tipo medio ed esecutivo (esclusi gli artigiani) dall’industria ai servizi. Più interessanti sono le altre due categorie che l’Istituto di statistica individua: abbiamo avuto un aumento di 437mila unità (pari al 20,9%) tra il personale non qualificato e una diminuzione di 362mila unità (-4,3%) tra le professioni qualificate e tecniche. Questo trend sembra essersi rallentato negli ultimi anni, con il 2016-2017 che ha visto il personale non qualificato stazionario e una crescita di 145mila occupati tra le professioni qualificate e tecniche. Ma nonostante questo il calo è marcato e aiuta a spiegare il perché i livelli di produttività del lavoro sono sostanzialmente fermi nell’ultimo decennio.
Quali conseguenze?
Da questi dati, ai quali il Rapporto Istat ne aggiunge altri particolarmente interessanti sulle tipologie contrattuali che potrebbero essere in parte legate (si pensi al rapporto tra occupazione a termine e il settore dei servizi alla persona), si possono trarre alcune conclusioni.
La prima è quella che nell’ultimo decennio il volto del mercato del lavoro è cambiato radicalmente, con alcuni settori prima marginali (i servizi alle famiglie) che hanno guadagnato ampio spazio e con spostamenti di centinaia di migliaia di lavoratori tra un settore e l’altro. Ed essendo tali spostamenti avvenuti in un periodo di crisi, che ha portato con ampia probabilità all’esplosione di molte situazioni che da anni vivevano profonde criticità, è difficile immaginare che siano avvenuti volontariamente, con tutte le conseguenze che questo porta sugli equilibri psico-fisici, ma anche socio-economici, delle persone.
La seconda conseguenza riguarda i salari, che sappiamo essere piatti, se non in calo, da oltre un decennio. Infatti, il passaggio da occupazioni nel settore dell’industria, spesso tutelate da contratti collettivi recanti buone tutele per i lavoratori e salari dignitosi, ad alcune branche dei servizi meno tutelate e con salari inferiori, ha inciso molto sugli equilibri complessivi. Con tutte le conseguenze che questo ha avuto in termini di tenuta sociale del paese.
Siamo all’interno di un trend irreversibile? Se il riferimento è allo svuotamento del settore manifatturiero a vantaggio di quello dei servizi, sì. Ma questo andamento significa ben poco se non analizzato nel dettaglio. E il dettaglio ci dice che l’irreversibilità macro non è per forza negativa. Basta vedere infatti come in tanti paesi europei, lavorare nei servizi non significa solamente lavoro a basso valore aggiunto concentrato nei servizi alla persona, ma un lavoro altamente produttivo nei settori ICT, finanziari, di consulenza avanzata. Tanto che molti dei lavoratori di questi servizi sono occupati proprio presso imprese manifatturiere, così da far scomparire, nelle economie che investono in innovazione, la netta distinzione (ormai manualistica) tra settore secondario e settore terziario. E probabilmente il nodo è proprio in questi investimenti in innovazione che generano lavoro di qualità, domanda di competenze, processi formativi e nuovi modelli organizzativi. Immagine in anteprima via Istat Segnala un errore
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